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La mia storia
11 maggio 2006


 

INTRODUZIONE

 

Mentre scrivo queste righe, cadono esattamente cinque anni da quando conobbi Serge Wilfart e cominciai a praticare il suo metodo. Qualche mese prima di quell’incontro, quando ancora non ero nemmeno al corrente della sua esistenza, avevo visto il suo libro Il canto dell’essere nel negozio Ricordi di Milano, l’avevo letto e ne ero rimasta colpita, perché vi trovavo descritte problematiche a me ben note, sia per averle vissute in prima persona, sia perché le ritrovavo continuamente nei miei allievi di canto e arte scenica. Recensii il volume sulla rivista di musica e teatro a cui collaboro e ne inviai copia alla casa editrice. Dopo qualche settimana mi telefonò la traduttrice del libro, l’indimenticabile e compianta Chiara Minerbi, che mi fornì il calendario degli stages che Wilfart avrebbe tenuto di lì a poco in Italia. Notai che erano distinti in “respiro e voce” e “canto” e, da cantante diplomata al Conservatorio e con una seppur modesta carriera concertistica alle spalle, non ebbi dubbi e mi iscrissi a uno stage di canto ritenendo quelli di “respiro e voce” per me assolutamente superflui. Quello che accadde in seguito, e che tutt’ora sta accadendo, è l’oggetto di questa mia tesi, che ho dedicato all’influenza del metodo Wilfart sulla comunicazione: con sé stessi, con gli altri e, nel caso del cantante professionista, con il pubblico.

         E, perché no, anche con Dio.

 

 

 

CAPITOLO I.  LA DISCESA VERSO IL SILENZIO

 

         Il mio rapporto con la voce umana è sempre stato intensissimo. Mia madre aveva una splendida voce di soprano, molto simile a quella di Renata Tebaldi, e cantava molto bene, avendo preso lezioni da un ottimo maestro della vecchia scuola napoletana, Antonio Danza, il quale l’aveva anche invano incoraggiata a tentare la carriera artistica. Non ero ancora nata, e già “ascoltavo” la Callas dal vivo, giacché mia madre era un’assidua frequentatrice della Scala anche durante la gravidanza. Pochi mesi dopo la mia nascita, la mamma aveva ripreso a studiare, sia pure solo per diletto, e io la ricordo mentre, sbrigando le faccende domestiche, cantava “Tacea la notte placida”, “In quelle trine morbide”, “Vissi d’arte”..... E quando non cantava ascoltava i dischi; mi colpirono soprattutto Lucia di Lammermoor, La forza del destino e Otello, che mi fecero entrare in contatto con le voci della Callas, della Tebaldi, di Del Monaco, di Di Stefano e di Siepi, tanto diverse fra loro, ma tutte grandi, affascinanti e che, soprattutto, comunicavano emozioni così forti da far venire i brividi sotto la pelle e le lacrime agli occhi. A poco più di due anni cominciai a cantare una canzone allora molto in voga e che mi capitava di ascoltare spesso perché era la sigla di un popolare programma televisivo: cantavo allegramente per la strada e nei negozi, quando accompagnavo mia nonna a fare la spesa. Fu poi la volta delle canzoni dello “Zecchino d’oro”, il festival canoro per bambini, al quale sognavo di partecipare; alle recite scolastiche e della colonia estiva ero una vera primadonna e suscitavo ampi consensi fra gli insegnanti e il pubblico. Ero una bambina molto estroversa, non avevo alcun problema a relazionarmi con il prossimo, e cantavo ogni volta che potevo.

        

A nove anni cominciai a studiare il pianoforte, sognando però sempre di diventare una grande cantante lirica, ma bisognava aspettare verso i diciassette, diciotto anni per iniziare con la tecnica vocale: io, però, ero impaziente, e cantavo arie d’opera. Avevo scoperto Mozart e, per un bel po’ di tempo, non avevo cantato altro, con grande fortuna della mia voce in erba, alla quale altri autori più “forti” avrebbero senz’altro nuociuto; la mamma, comunque, mi seguiva discretamente in queste mie esplorazioni vocali e, terminato il liceo, mi affidò, su consiglio di una cantante nostra conoscente, a un’insegnante piuttosto anziana, che aveva una grande esperienza musicale e teatrale, ma che non era precisamente una didatta. La giovane età e l’entusiasmo, tuttavia, supplivano alle carenze tecniche e, a ventidue anni, fui ritenuta pronta per partecipare a un concerto pubblico. Fu allora che mi scontrai per la prima volta con il lato negativo di quello che viene solitamente considerato una virtù: il pudore. Cantavo il “Valzer di Giulietta”, cantavo il duetto del primo atto della Traviata, cantavo, insomma, l’amore e il mio corpo era di sasso; riuscivo a sentirmi un po’ più a mio agio quando mi rifugiavo nei virtuosismi di Dinorah o nella petulanza di Musetta. Ma quando testo e musica mi costringevano a fare i conti con la mia interiorità più profonda erano dolori: il corpo si irrigidiva e la voce si faceva fissa e, a tratti, persino un po’ sgradevole. Eppure io sapevo quale sarebbe dovuto essere il risultato: frequentavo il teatro d’opera fin da bambina, mille volte ero rimasta affascinata dalla capacità dei grandi interpreti di comunicare emozioni anche violente. Il fatto che, a quell’epoca, fossi ancora sprovvista di un fidanzato e non avessi avuto nemmeno una “storiella” durante gli anni dell’adolescenza poteva, secondo qualcuno, costituire una spiegazione. In realtà, c’era ben altro alla base del mio disagio. La musica prima e il canto in un secondo tempo erano diventati delle materie di studio, alle quali andava dedicato grande impegno e che andavano sentite come un dovere, nell’ottica della grande severità educativa che regnava nella mia famiglia, e che era rappresentata soprattutto da mio padre. Oggi, alla luce di quanto ho appreso e sperimentato attraverso il metodo Wilfart, mi rendo conto di quanto la mia energia fosse bloccata a livello mentale e di quanto fossi prigioniera dell’autocontrollo e della forza di volontà, che per mio padre erano delle parole d’ordine. A posteriori, posso dunque dare una spiegazione anche ai dolorosissimi blocchi mandibolari che mi affliggevano, all’incurvamento delle spalle, alla tendenza a tenere la testa bassa. Ma, quel che è peggio, il canto si stava trasformando in una disciplina costrittiva, che continuava a darmi soddisfazione su di un piano puramente estetico, coinvolgendomi però sempre meno sul piano emotivo. Inoltre, stavo diventando timida, quando prima non lo ero mai stata, e cominciavo ad avere difficoltà relazionali in un momento della vita in cui, pressoché terminati gli studi, avrei dovuto affacciarmi al mondo del lavoro. Il difetto di comunicazione, all’inizio soltanto interiore, si stava propagando anche all’esterno.

 

Un momentaneo sollievo venne dal mio ingresso nella Nuova Polifonica Ambrosiana, antica e gloriosa compagine corale milanese in cui cantavano sia professionisti che appassionati di buon livello; fui subito inserita nel gruppo dei solisti, ma con l’obbligo di cantare anche nel coro tutte le volte che fosse necessario, cosa che mi giovò molto perché il canto corale era per me liberatorio. Di nuovo azzardo un’ipotesi a posteriori: la mia voce entrava in risonanza con tutte le altre e ristabiliva, almeno apparentemente, quell’equilibrio di comunicazione con l’esterno che si era alterato. Parallelamente, però, la pratica vocale d’insieme mi permetteva di nascondermi a me stessa, e il filo della comunicazione interiore veniva così ad assottigliarsi ulteriormente. Intanto la vita andava avanti e bisognava fare i conti con la realtà. La mia realtà, in quegli anni, fu molto difficile e caratterizzata da seri problemi sul piano familiare e personale: la morte prematura di mia madre, una malattia grave e invalidante di mio padre - con il quale la comunicazione non era mai stata facile ed diventata ancora più difficile dopo la scomparsa della mamma – e una relazione sentimentale travagliata, che si trascinava unicamente perché nessuno dei due voleva restare solo. Cantare mi risultava sempre più difficile, non ero convinta di quello che facevo, e tuttavia, caparbiamente, continuavo a studiare e a perfezionarmi sul piano tecnico ed estetico, accettando inoltre tutti i concerti che mi venivano proposti, perché ritenevo fosse mio dovere, dato che avevo appunto studiato tanto per poter svolgere questa attività. Mi accorgevo, però, che non riuscivo a comunicare con gli spettatori, i quali mi ascoltavano educatamente e mi applaudivano poiché certo le mie prestazioni erano più che decorose, ma niente più. E allora, a che pro continuare?

 

Poco prima dei trent’anni, nel periodo in cui lavoravo come consulente musicale presso la RAI – professione per svolgere la quale occorreva una solida preparazione musicale, ma che lasciava ben poco spazio alla creatività – cominciai a impartire lezioni di canto, prima a singoli allievi e, in seguito, ad alcune compagini corali. I risultati erano positivi per gli allievi, ma terribilmente frustranti per me: non riuscivo a comprendere, infatti, come mai fossi perfettamente in grado di spiegare i meccanismi della tecnica vocale agli altri, riuscendo a farli progredire, mentre non riuscivo, a mia volta, a migliorare le mie prestazioni, che rimanevano sempre poco più che mediocri. Per ovviare almeno in parte – o così mi pareva – all’imbarazzante situazione, mi rifugiai nella musica da camera e nel repertorio antico, che peraltro amavo molto, e per qualche anno ebbi un certo successo come interprete di musica medievale. Fu proprio seguendo una serie di corsi di perfezionamento in tale ambito che incontrai una straordinaria vocalista e studiosa, purtroppo prematuramente scomparsa, Barbara Thornton, fondatrice dell’Ensemble Sequentia di Colonia. A lei si deve la riscoperta e la diffusione della produzione musicale della grande mistica medievale tedesca Hildegard von Bingen, che costituiva gran parte del repertorio sul quale con lei lavoravo. Si dice che le creazioni musicali di Hildegard scaturissero dalle sue prolungate estasi, durante le quali aveva straordinarie visioni del mondo ultraterreno, di cui parla nella sua ampia produzione letteraria. Ascoltando e praticando queste bellissime musiche vocali, per certi versi affini al canto gregoriano, ma che ne trascendono completamente lo stile, percepivo un fascino che definirei, letteralmente, indescrivibile. Oggi, alla luce della pratica del metodo Wilfart, mi rendo conto che quel fascino che tanti anni fa non ero in grado di descrivere, e che anzi mi intimoriva mentre mi prendeva, era il colloquio con la mia interiorità più profonda, che premeva per scaturire attraverso le mie viscere, i miei polmoni, la mia gola, per mezzo della “mia” voce vera, non condizionata da artifici tecnici o sovrastrutture estetiche. Ma, pur senza rendermene conto, ne ebbi paura ... e cambiai repertorio.

 

Avendomi  tutti i miei insegnanti sempre classificata come un soprano lirico-leggero, ed essendo io stata educata a non mettere mai in dubbio l’autorità dei maestri, non pensai che le mie difficoltà nel registro acuto potessero essere causate da un errore di classificazione vocale, e mi convinsi sempre più di non essere in grado, a causa del mio scarso talento, di mettere in atto tutti gli insegnamenti che mi erano stati impartiti. Non seppi, dunque, ascoltarmi, sia esteriormente che interiormente e, stanca di questa immane lotta con una voce che non ne voleva sapere di obbedirmi, decisi di non cantare più. Avevo ormai trentasei anni e, obbiettivamente, non era più possibile per me pensare di intraprendere una carriera, non solo per motivi anagrafici, ma anche perché il piacere di cantare si era, o almeno così mi sembrava, irrimediabilmente perso. Tuttavia, ricordo ancora il preciso istante in cui presi quella decisione come un momento molto doloroso, anche in senso fisico: a parte la sensazione che mi si piantasse un coltello nel cuore, per una quindicina di giorni ebbi l’impressione che qualcosa spingesse, dall’interno del mio corpo verso l’esterno, all’altezza degli avanbracci. Cercai di reprimere quella sgradevole sensazione e ci riuscii, ma, qualche tempo dopo, la mia salute, fino a quel momento pressoché ottima, cominciò un lento e quasi impercettibile progressivo deterioramento, che si fece sempre più evidente e rapido per culminare, qualche anno dopo, in una grave malattia della tiroide – organo, non a caso, situato a livello del quinto chakra, il chakra della gola -  che alterò profondamente il mio stato fisico, causandomi dei danni tuttora persistenti. Ancora una volta non mi ero ascoltata, avevo rifiutato la comunicazione con me stessa, e le conseguenze erano evidenti. Ma io continuavo a non accorgermene e mi avviavo a completare la mia discesa verso il silenzio.

 

Nei sette anni successivi, cantai – se così si può dire – in tre o quattro occasioni che proprio non potevo rifiutare, con fatica sempre maggiore, con la bocca che si apriva sempre meno e la voce che si rimpiccioliva sempre più, fino a essere quasi inesistente. Ed è in questo stato che, il 14 maggio 2001, mi presentai a Bracchio.   

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO II.  LA RISALITA VERSO IL SUONO

 

 

         Nel frattempo, avevo cambiato lavoro: ora insegnavo al Conservatorio. La  nuova attività fu fondamentale per riuscire a reggere il dolore e la frustrazione causati dal non poter cantare. Fu una sorta di sublimazione, attuata attraverso la didattica e il rapporto con gli allievi e, elemento nuovo e di grande importanza, non solo con le loro voci, ma anche con i loro corpi; il destino aveva voluto, infatti, che nell’ambito dei concorsi nazionali che erano stati banditi per l’insegnamento nei Conservatori di Musica, uno dei primi a iniziare e a concludersi non fosse stato quello di canto, bensì quello di arte scenica, al quale mi ero iscritta perché la materia mi era molto piaciuta quando avevo dovuto a mia volta preparare quell’esame per poter conseguire il diploma di canto. Si tratta di una disciplina molto composita, che consta di parti storico-teoriche e di una parte pratica, finalizzata all’interpretazione scenica di brani solistici e d’insieme tratti da opere liriche. Quando avevo frequentato quel corso come allieva, la mia insegnante, una ex-cantante  molto famosa, mi aveva insegnato a muovermi esclusivamente in funzione della scena che dovevo interpretare, schematizzando i movimenti all’interno di una regia che non poteva presentare sostanziali variazioni fra le varie ripetizioni effettuate durante le prove. E così mi accinsi a fare una volta divenuta io stessa insegnante. Quando preparavo il mio esame di arte scenica, mi ero resa conto che il movimento corporeo aiutava, in qualche modo, l’emissione della voce; all’epoca, pur essendo vocalmente già un po’ in difficoltà, ero ben lontana dalla situazione veramente drammatica in cui mi sarei successivamente ritrovata, per cui non badai più di tanto alla cosa. In seguito, non avendo intrapreso l’attività teatrale, ma essendomi dedicata al concertismo, mi rifugiai in una mentalizzazione esasperata rispetto all’atto vocale, giungendo agli estremi di cui ho poc’anzi parlato. Oltretutto, avendo a poco a poco abbandonato - per vari motivi, ma sempre legati alle difficoltà relazionali - tutti gli ensembles in cui avevo cantato, mi ero trovata a interagire solo con il pianista che di volta in volta mi accompagnava, trovandomi quindi in una situazione di scarsa comunicazione esterna, che rafforzava ulteriormente lo stato di chiusura interiore. Mi sembra significativo, a questo proposito, il giudizio che mio marito – il quale mi aveva conosciuta quando le mie difficoltà vocali erano già molto evidenti - dava sul mio modo di cantare: egli diceva che la mia voce sembrava fortemente compressa, e che dava l’impressione di non essere in grado di uscire dalla mia gola e di non riuscire a coinvolgere l’ascoltatore in ciò che io volevo esprimere. E quel che volevo esprimere era veramente tanto, e grande, e meraviglioso ...

 

         Ma torniamo ai miei esordi da docente al Conservatorio. Mi trovai improvvisamente di fronte a tante persone diverse, per voce, conformazione fisica, carattere, esigenze, aspettative. Per i primi anni mi limitai a insegnare nel modo in cui avevo a mia volta appreso a farlo, limitandomi alla preparazione dei programmi d’esame e, manco a dirlo, dando molto spazio alla parte storico-teorica. La situazione, però, mi andava stretta, e allora cominciai a cercare di “imparare” dai miei allievi, analizzando il loro modo di muoversi in scena e cercando di cogliere quanto poteva esservi di utile per me. Utilizzai i miei studenti come degli specchi umani e cominciai a impostare un metodo didattico basato sul raffronto fra le loro movenze e quelle dei grandi interpreti della scena lirica. Mi pare interessante notare, però, che io non fornivo quasi mai esempi pratici, ma facevo lezione quasi completamente a parole o servendomi di registrazioni video: sarebbe stato inutile cercare di fornire esempi concreti perché, sebbene sapessi perfettamente che cosa avrei dovuto fare, la mia comunicazione corporea era bloccata, anzi, mi vergognavo del mio corpo e delle mie emozioni. I miei allievi di quegli anni non hanno mai saputo niente della mia lacerazione interiore, ma il mio sistema di trasposizione verbale di quella che sarebbe dovuta essere comunicazione squisitamente corporea doveva comunque funzionare bene, perché ebbi molti attestati di apprezzamento da parte degli studenti stessi, dei loro familiari, e del direttore del Conservatorio. Durante i saggi di fine anno, inoltre, il pubblico appariva molto soddisfatto dello spettacolo, ma la mia coscienza critica non era in pace, e allora cercavo di metterla a tacere divorando testi sulle varie tecniche di recitazione e regia teatrale, e cercando accanitamente di metterne in pratica i contenuti.

 

         Ho parlato di lacerazione interiore a proposito del ritegno che provavo a mettermi io stessa alla prova sulla scena. Era una sensazione che mi faceva imbestialire, perché avevo ben presente come i grandi interpreti teatrali, cantanti lirici o attori di prosa che fossero, sapessero catturare l’anima degli spettatori rendendoli partecipi delle loro emozioni fino a indurli a immedesimarsi con il personaggio, trasformato così in essere quasi reale, dalla funzione consolatoria o catartica, a seconda del punto di vista e dei bisogni interiori dello spettatore stesso. Io, però, che da bambina ero stata così spontanea e priva di problemi con il mondo esterno, mi ritrovavo ad avere pudore di qualunque mia azione, anche innocua o, addirittura, di valenza positiva, quando esulasse dalla neutralità del banale agire quotidiano e “rischiasse” di palesare una mia emozione. Peraltro, dovendo fare i conti con la realtà dei rapporti umani e  lavorativi, ero costretta a fare grandi sforzi per riuscire almeno a mantenere un’apparenza di socialità, e a tale scopo – che, per inciso, raggiungevo benissimo – facevo intervenire, ancora una volta, la mente, la razionalità. Poco alla volta, non mi limitai più solo a nascondere le mie emozioni, ma cercai addirittura di sopprimerle sul nascere, per evitare il dolore che il loro insorgere mi causava. Nessuno se ne accorse mai, nemmeno mio marito, la persona a me più cara e più vicina, ma sul piano emotivo io mi sentivo  completamente anestetizzata.

 

         In queste condizioni arrivai a Bracchio, nel maggio del 2001, spinta dall’interesse suscitatomi dalla lettura de Il canto dell’essere, e convinta di sperimentare un nuovo metodo di canto che speravo mi facesse almeno ritrovare il piacere di cantare. Non mi aspettavo assolutamente gli esercizi che vidi eseguire agli altri partecipanti e che dovetti eseguire io stessa; fu una lotta furibonda, ingaggiata con il mio corpo e con la mia enorme energia interiore, compressa e resistente al punto da impressionare anche coloro che mi aiutavano a eseguire gli esercizi. Lucio Ongaro, che era fra questi, ricorda ancora oggi scherzando – ma non troppo – “le crepe nei muri di Bracchio” lasciate dalla sottoscritta, ma con questa espressione forse intende ricordare piuttosto l’enorme sforzo che dovette fare – e di cui mi parlò già allora – per contrastare le mie tensioni affinché potessi prenderne coscienza. Ricordo anche l’espressione – “petardo cinese” - che Serge usò per definire la mia energia, intendendo con ciò, come ebbe poi egli stesso a spiegarmi, un energia talmente forte e talmente repressa da esplodere qua e là in maniera incontrollata. Al termine dello stage, comunque, il risultato fu confortante, perché la voce, che all’inizio era come soffocata, riprese a uscire dalla mia mandibola così faticosamente disserrata; inoltre fui obbligata a “scoprirmi” e a palesare le mie debolezze e i miei difetti davanti agli altri, ma la cosa, sorprendentemente, non mi diede fastidio. Ritornata a casa, però, pur eseguendo diligentemente gli esercizi consigliatimi da Serge, non riuscii più a provare le stesse sensazioni e, sebbene si capisse che alla voce era “successo qualcosa”, giudicai i risultati ottenuti troppo scarsi per decidere di proseguire e, per più di un anno, quasi non ci pensai più. O, meglio, credetti di non pensarci più, perché nel settembre dell’anno successivo, presentandosi l’occasione di uno stage di canto a Milano, decisi d’impulso di partecipare, e lì scattò qualcosa, capii che quella era la strada giusta, che non dovevo mollare. L’anno successivo decisi di iscrivermi alla formazione e solo dopo avere finalmente partecipato come osservatrice al prescritto stage di “respiro e voce”, che avevo sempre così pervicacemente snobbato, capii che tutte le mie difficoltà derivavano dal mio voler “essere cantante” e non “essere donna che comunica con la voce e con il corpo”.  Non potrò mai dimenticare, in quell’occasione, una signora sessantacinquenne, dai capelli candidi, che pochi mesi prima era stata a un passo dalla morte per una grave patologia cardiaca, la quale, al termine di una seduta, scoppiò in singhiozzi che la soffocavano, ma, di conseguenza, la costringevano anche a riempire completamente i polmoni per cercare l’aria che le  mancava. Durante il bilancio finale, quella signora disse di aver capito in quel momento che non poteva morire senza prima avere vissuto. Quelle parole mi scossero profondamente e mi indussero a uno spietato autoesame: stavo veramente vivendo, o il mio modo di vivere era un surrogato della vita vera che avevo avuto in dono alla nascita, ma della quale non ero in grado di appropriarmi realmente?

 

         Un momento molto importante della formazione al metodo fu quando riuscii finalmente a capire la differenza che intercorreva fra il significato del verbo “cantare” come lo avevo fino a quel momento inteso – e cioè emettere la voce seguendo determinati artifici tecnici e adeguandosi a determinati parametri estetici – e come lo intendeva Serge. Il bello è che lo scoprii non tanto, o, comunque, non solo a spese mie, ma anche a spese dei colleghi di corso che, come me, erano cantanti professionisti: vissi assieme a loro i loro momenti di crisi e li feci miei  redendomi così conto, una volta di più, di quanto fosse importante entrare in sintonia con gli altri e di quanto ciò fosse, da un punto di vista puramente utilitaristico, addirittura conveniente. Parallelamente, mi accorsi che i miei allievi più cari, quelli con cui si era sviluppato un rapporto di amicizia, mi si legavano ancora di più e la qualità del lavoro didattico migliorava ulteriormente. Un giorno, poi, mi accorsi con grande gioia che avevo appena fatto un esempio vocale a una mia allieva: la voce era uscita spontanea, senza che me ne rendessi conto. Stavo finalmente cominciando a vincere la mia lotta contro la mentalizzazione e pensavo che mancasse poco al momento in cui mi sarei definitivamente lasciata andare alla corporeità, ma non avevo calcolato la resistenza che le vecchie tensioni dell’anima avrebbero ancora scatenato per impedire il mio rinnovamento: per quasi tutto l’inverno fui perseguitata da dolori violentissimi nella zona lombo-sacrale e mi pareva che anche la mia capacità comunicativa, che mi ero ormai abituata a considerare un po’ la mia cartina di tornasole, si fosse improvvisamente inaridita. In maggio, giunta allo stage di interformazione, affrontai la mia prima seduta piuttosto abbattuta, e manifestai a Serge tutto il mio sconforto. Ma, con mia grande meraviglia, lui mi fece notare una cosa importantissima, ma di cui, incredibilmente, non mi ero ancora resa conto: la mia mandibola si era sbloccata. Allora capii il significato di quei mesi di fortissimi dolori alla base della schiena: il metodo stava funzionando e quei dolori non erano stati altro che l’ultimo tentativo della “vecchia Vittoria” di impedire alla “nuova Vittoria” di prendere il suo posto. A completare il quadro positivo vennero le osservazioni dei colleghi, e in particolare quella di Gabriella Notarbartolo: mentre stavamo rientrando a Milano, osservandomi camminare davanti a lei all’aeroporto, mi fece notare che i miei fianchi dondolavano morbidamente, segno che non solo la mia schiena si stava sbloccando, ma che la mia personalità più squisitamente femminile stava finalmente uscendo allo scoperto.

 

         Mentre i segni di cambiamento che mi avevano coinvolta durante il primo anno della formazione erano essenzialmente legati al corpo, il secondo anno di formazione fu caratterizzato da una serie di fenomeni concernenti un altro livello di comunicazione: quello uditivo. Assieme alla postura e alla contrazione mandibolare, l’udito è sempre stato uno dei miei punti deboli: un’otosclerosi destra era stata operata con successo, ma aveva recidivato dopo poco più di tre anni come effetto collaterale della tiroidite. Al di là delle difficoltà di comunicazione che la quasi totale sordità a un orecchio comporta, anche l’emissione vocale, soprattutto a livello del canto, risulta notevolmente alterata da una simile situazione. Eppure, secondo l’audiologo, io dovrei sentire molto meno di quanto in realtà sento, e dovrei essere peggiorata molto più rapidamente. Ancora una volta, i risultati più evidenti si ebbero durante lo stage di interformazione, che per il secondo anno consecutivo era collocato in primavera, quindi quasi alla fine dell’anno di studio. Mentre eseguivo l’esercizio a terra di sollevamento del bacino ed estensione della colonna cervicale, mi resi improvvisamente conto che non solo percepivo meglio quanto Serge mi diceva, ma migliorava di molto anche la mia comprensione della lingua francese, che ho imparato da bambina, ma che non è la mia lingua madre e non ho mai praticato con regolarità. Lo dissi a Serge, e lui mi rispose che ciò era dovuto alla distensione muscolare che si veniva a operare a livello dell’orecchio; se si pensa che l’otosclerosi è causata dal progressivo blocco della staffa, uno degli ossicini dell’orecchio medio, e che questi ossicini sono fra loro collegati da piccolissimi muscoli, l’osservazione diventa ancora più interessante. Il metodo ideato da Serge Wilfart può dunque agire anche sul piano della comunicazione translinguistica, oltre che su quello, non verbale, del corpo?  Non sono ancora in grado di dare una risposta precisa a questa domanda, ma intendo approfondire l’argomento. Mi ha sempre incuriosita, infatti, il successo che alcune compagnie di prosa hanno presso pubblici che non capiscono la loro lingua, ma che mostrano di apprezzare enormemente le loro rappresentazioni; mi riferisco, in particolare, alla storica compagnia del Piccolo Teatro di Milano guidata da Giorgio Strehler, e, in tempi recenti, alla compagnia del regista lituano Eimuntas Nekrosius. Penso si possa ipotizzare che un certo modo di rapportare la verbalità e la corporeità provochi un coinvolgimento e un’ottimizzazione di tutte le energie dell’interprete che inevitabilmente coinvolgono la sensibilità percettiva dello spettatore, il quale a sua volta entra in vibrazione “per simpatia” e chiude il circolo comunicativo, ritrasmettendo la propria energia partecipativa all’interprete, dalla quale quest’ultimo viene ulteriormente ricaricato.

 

         Ed eccomi al terzo anno della formazione, quello che si sta concludendo, e che si sta rivelando, per molti motivi, assolutamente straordinario. In primo luogo perché mi sono resa conto che riesco a comunicare il metodo in poco tempo anche a persone che non ne avevano mai sentito parlare prima; riesco a leggere i loro corpi e a cogliere ciò che si cela nelle loro voci, e questo affinamento delle mie capacità ha migliorato anche il mio modo di insegnare l’arte scenica e il canto. Sono ben conscia, naturalmente, di avere intrapreso un’attività che necessita di continue verifiche e di continui confronti con chi percorre la mia stessa strada – e, soprattutto, con chi la percorre già da molto prima di me - ma già mi riempie di gioia sentir dire da qualcuno, a cui ho impartito solo un paio di lezioni, che gli ho “aperto un mondo”, ed è quanto mi è accaduto proprio l’altro ieri. Inoltre, mi sento intellettualmente più lucida, e resisto molto meglio alla fatica, sia fisica che mentale; percepisco il mio corpo nella sua completezza, e sento di amarlo anche nei suoi difetti. Ma, fino a poco tempo fa – ed è veramente poco, questione di giorni – sentivo che mancava ancora qualcosa, che c’era ancora un vuoto.

         Un vuoto che ora si sta colmando.   

 

 

CAPITOLO III. LA COMUNICAZIONE INTERIORE

 

        

         Quel vuoto che ancora sentivo nella mia vita, pur fra tutte le soddisfazioni che il mio nuovo modo di rapportarmi con gli altri mi dava, era costituito dalla difficoltà di comunicare con la persona a me più vicina, che era nel contempo la mia più grande nemica: me stessa. Vivevo una situazione che si potrebbe definire “schizofrenica”: la mia sicurezza esteriore non trovava corrispondenza in altrettanta sicurezza interiore, l’apparenza non coincideva con la sostanza. Il risultato erano sbalzi umorali e alterazioni del comportamento che rimettevano in discussione anche la comunicazione con gli altri. L’episodio più significativo in tal senso avvenne in un periodo di grave preoccupazione per la salute di mio marito, il che mi rendeva particolarmente instabile: non starò qui a descrivere la dinamica dei fatti, ma in quell’occasione il difetto di comunicazione con una sconosciuta la quale, spaventata da un mio atto involontario che aveva vissuto come per lei pericoloso, aveva reagito con aggressività nei miei confronti, si canalizzò in una mia esplosione di violenza verbale durante la quale gridai talmente tanto da perdere completamente la voce per molti giorni. Analizzando, in seguito, il mio comportamento, mi resi conto che, all’origine del mio modo di reagire in quell’occasione – che, peraltro, era stata la più eclatante, ma non certamente l’unica in cui avevo avuto reazioni simili – c’era qualcosa che si celava nella più intima profondità del mio Io, qualcosa che può essere, per certi versi e in certe occasioni, molto positivo e di grande aiuto, ma che può anche creare seri problemi a livello comunicativo: uno smisurato orgoglio.

 

         Vorrei soffermarmi ad analizzare il senso di questa parola. Essa trae origine dal franco urgoli e dal tedesco antico urgol, che significa “notevole”, e così la definisce il Vocabolario della Lingua Italiana Treccani: “Stima eccessiva di sé; esagerato sentimento della propria dignità, dei propri meriti, della propria posizione o condizione sociale, per cui ci si considera superiori agli altri [...]. Con senso attenuato (per influenza del francese orgueil), sentimento non criticabile della propria dignità, giustificata fierezza [...]; anche, amor proprio [...].” Poiché ritengo che l’etimologia delle parole e il loro percorso semantico nel corso dei secoli abbiano stretti legami con l’origine  e lo sviluppo dell’essere umano, mi piace analizzare il significato oggettivo del termine in questione in relazione alle mie origini e alla mia storia personale, per verificare quanto del suo significato pieno e quanto di quello attenuato vi possa aver trovato posto.

 

Sono nata in una famiglia di persone semplici, ma indubbiamente dotate di un grande senso della dignità personale. Mio padre, nato e cresciuto in povertà e molto trascurato dai genitori, riuscì a crearsi una discreta posizione sociale ed economica solo grazie alla propria forza di volontà, di cui andava ovviamente molto orgoglioso; mia madre, nata invece in una situazione un po’ più favorevole, almeno in quanto a sicurezza familiare ed economica di base, fu il supporto pratico della grande capacità lavorativa di mio padre, al quale sacrificò tutte le sue istanze interiori, esortandomi però a non comportarmi assolutamente mai come lei, e a non sacrificare a nessuno la mia personalità. Pur non essendo atei, i miei genitori – e mio padre in particolare – consideravano sostanzialmente l’uomo come unico artefice del proprio destino, tranne che per quegli eventi, come malattie o disgrazie, sui quali egli non può – almeno apparentemente – esercitare influenza alcuna. La volontarietà come regola di vita, dunque, in ogni settore dell’esistenza, e il conseguente sforzo continuo di sottomettere quanto più possibile la realtà alla volontà e di cercare di influenzare gli eventi in senso volontaristico mi hanno accompagnata fin dall’infanzia. Da qui, dunque, l’esagerato sentimento della mia dignità, che mi ha portata addirittura a contraddire per così tanto tempo la mia più intima e più vera personalità.

 

         Durante quest’ultimo anno di formazione, l’immane pilastro a cui avevo  da sempre legato,  imprigionandola, la mia esistenza si è definitivamente sgretolato, e io mi sono improvvisamente ritrovata libera, con una iniziale sensazione di paura che si sta gradatamente attenuando. In un primo momento sono stata assalita dalla paura del vuoto, come quando si entra in acqua e ci si stupisce per come si galleggia, anziché affondare. La paura di lasciarsi andare, di aprirsi, di confessare a sé stessi le proprie fragilità, nonché il bisogno di indossare corazze di protezione dal mondo esterno, se ne vanno a poco a poco, e con essi se ne va anche quella perenne sensazione di stanchezza che sempre mi accompagnava, e che viene ora sostituita da energie fisiche e spirituali che sembrano inesauribili. Fino a poco tempo fa l’angoscia di un nuovo giorno da affrontare accompagnava il mio risveglio mattutino, mentre oggi la prima sensazione che provo quando apro gli occhi è la gioia, e se l’angoscia tenta di fare capolino viene subito sopraffatta. E anche la mia voce, che fino a poche settimane fa presentava ancora difficoltà a esprimersi pienamente nel canto, ora fluisce più libera e più ricca di armonici. L’ultimo stage di canto è stato, in questo senso, illuminante: la voce che usciva dalla mia gola non mi sembrava neppure la mia, era la voce di una sconosciuta, che ora devo imparare a conoscere, per scoprire quante cose belle ha da comunicarmi.

 

Una parte del cammino è compiuta; è stata molto faticosa, ma non è detto che il percorso che ora mi aspetta lo sia di meno. Completamente diverse sono però le condizioni in cui lo affronto: mi sento più leggera, più contenta, più buona, più aperta. So che devo ancora fare molta attenzione ai riflessi condizionati del passato, perché ogni tanto riaffiorano nel mio comportamento, e ho anche un po’ di paura: non vorrei, aprendomi troppo agli altri, diventare vulnerabile ...La mia mandibola che ancora devo “obbligare” ad aprirsi perché si rifiuta di farlo automaticamente è un chiaro segnale che questo problema è tuttora presente.

 

Ma io non dispero!

 

 

CAPITOLO IV.  LA COMUNICAZIONE CON DIO   

 

         Ho deciso di dedicare questo capitolo alla comunicazione con Dio, non intendendo con ciò, necessariamente, la Divinità di una qualsivoglia religione – elemento troppo legato anche a fattori antropologici e ambientali, oltre che squisitamente personali, per poter essere oggetto di una trattazione in questa sede – bensì il senso del divino che sempre alberga nell’uomo anche quando egli non ne è cosciente. Guardando alla mia esperienza personale, posso affermare che il metodo Wilfart, per la profondità con cui agisce sull’equilibrio psico-fisico, può non solo rimettere in discussione atteggiamenti corporei, mentali, caratteriali e comportamentali che sembravano ormai cristallizzati, ma può anche produrre, a livello spirituale, quel che non esito a definire una “conversione”.

 

         Ancora una volta mi servirò del vocabolario per inquadrare l’argomento in maniera quanto più possibile oggettiva. Le accezioni con cui la parola “conversione” viene intesa sono legate a molti e diversi campi del sapere, nonché a svariati usi specifici e tecnici, ma, sostanzialmente, si riducono a due: rivolgimento, movimento di un corpo nello spazio intorno a un altro corpo (in fisica); mutamento, trasformazione (in chimica, in arboricoltura, in giurisprudenza, in economia, in elettrotecnica, in fisica  nucleare, nell’industria, nell’informatica, nella logica, in metrologia, in psicanalisi). Vi è poi l’accezione tipica del linguaggio comune che indica, secondo il già citato Vocabolario della Lingua Italiana Treccani “il passare da una religione a un’altra, da una vita di errori a una vita di bontà [...], e più genericamente qualsiasi mutamento di fede e di opinioni”.

 

         Rivolgimento, mutamento, trasformazione. Non vi è alcun dubbio che questo metodo provochi un rivolgimento sul piano respiratorio e dell’equilibrio energetico, con conseguenti mutamenti fisici e trasformazioni nell’ambito caratteriale e comportamentale. Ma è una parte dell’accezione comunemente usata, e precisamente “il passare [...] da una vita di errori a una vita di bontà [...]” quella su cui desidero soffermarmi.

 

         Il metodo Wilfart, obbligando a prendere coscienza delle proprie tensioni, obbliga di conseguenza anche a prendere coscienza dei propri errori poiché, nel momento in cui le tensioni, progressivamente, si usurano, è impossibile persistere negli errori comportamentali che le accompagnavano e che ne erano, al tempo stesso, origine e conseguenza, come in un circolo vizioso continuamente ricorrente. Una frase di San Paolo credo possa ben sintetizzare lo stato in cui si trova l’individuo desideroso di “convertire” la propria esistenza: “C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rom 7, 18s). Intendendo il male come rivolto non solo verso gli altri, ma anche verso sé stessi, la mia personale esperienza mi spinge ad affermare che la pratica profonda di questo metodo porta a una “conversione” della propria esistenza nella misura in cui non lascia mai l’individuo uguale a quello che era prima, portandolo a rivedere anche radicalmente molte opinioni che parevano inesorabilmente consolidate. La controprova di quanto affermo può essere individuata nelle resistenze anche molto forti che numerosi soggetti oppongono al lasciarsi penetrare dal metodo stesso e dai suoi effetti, perché quasi mai si ha la coscienza immediata di quanto bene farebbe cambiare radicalmente la propria vita e quasi sempre si ha molta riluttanza ad abbandonare le false sicurezze a cui da sempre ci si aggrappa. Per quanto mi riguarda, la “conversione” è avvenuta di recente e, all’apparenza, all’improvviso. Naturalmente so che non è così, e che il lavoro preparatorio è stato molto progressivo nel corso del tempo, ma la presa di coscienza è giunta veramente inattesa, e ha creato in me uno stato di gioiosa esaltazione a cui mi sono inizialmente abbandonata come fa un bambino quando si lascia portare verso l’alto dalle rassicuranti braccia del padre. Passato questo primo momento trascorso nella mia nuova vita, sono tornata a scivolare in quella vecchia, presa dal dubbio di essere ridicolmente infantile, di non essere razionale, di farmi ingannare da false illusioni; ma è stata questione di poco, perché la convinzione che il passato fosse costituito da “errori” e il presente da “bontà” ha prevalso. Da quel giorno, che data a poche settimane fa, vedo me stessa, la mia esistenza, gli altri e il mondo che mi circonda sotto un luce diversa: mi sento veramente più “buona”, nel senso che sto deponendo le armi e le armature con cui mi ero sin qui difesa da una quantità di pericoli immaginari. L’ansia di perdere ciò che posseggo, in termini soprattutto affettivi, si va calmando, mentre il desiderio di azione si sta trasformando da defatigante, e spesso vano, sforzo di volontà in una energia da cui mi sento costantemente irradiata e che mi permette di fare cose che un tempo avrei ritenuto impossibili. Mi sento, come ogni uomo dovrebbe sentirsi, una creatura di Dio. E mentre scrivo queste righe conclusive  avverto che questa sensazione si sta sempre più approfondendo, e che sta creando nuove e più solide fondamenta alla mia anima.

 

         Non ho più paura di nulla, perché sento che, se riuscirò a mantenermi sempre in sintonia con la mia rinnovata interiorità, potrò affrontare con successo anche i momenti più difficili dell’esistenza, compresa la morte: quella di chi partirà prima di me, e poi la mia.

 

         Qualunque cosa possa accadermi da oggi fino a quel momento, sarò comunque cosciente di avere fatto tutto il possibile per non sprecare la mia vita, ma per viverla, invece, nel modo più completo!

 

 

APPENDICE.  IL MIO LAVORO CON IL METODO

 

         Dato il carattere prettamente autobiografico della mia tesi, che credo abbia sufficientemente messo in luce l’approfondimento personale fin qui avvenuto, ho ritenuto opportuno aggiungere questa Appendice, in cui desidero illustrare il mio approccio professionale al metodo in qualità di insegnante.

 

         Lo stage di osservazione – che era anche il primo di “soffle et voix” a cui assistevo – e i successivi stage di assistenza sono stati per me importantissimi, in quanto mi hanno  permesso di chiarire la differenza, di cui tanto spesso parla Serge, fra l’insegnamento del canto e quello della voce. Per un cantante professionista è generalmente molto difficile abbandonare i vecchi schemi tecnici ed estetici a cui è abituato e convincersi che solo dopo avere individuato la propria vera voce e averla padroneggiata è possibile piegarla alle più sottili esigenze interpretative. Chi si accosta allo studio del canto per imparare a utilizzare la propria voce in modo artistico – per scopi professionali o per diletto personale – viene di solito invitato dall’insegnante a focalizzare l’attenzione sull’apparato fonatorio e su quello respiratorio. Tale attenzione, talora eccessiva, origina una sorta di “disattenzione” alla propria corporeità generale che, sommata al desiderio – per non dire all’ansia – di raggiungere in breve tempo un buon risultato estetico, peggiora inevitabilmente le già presenti tensioni mentali e muscolari, influenzando negativamente l’emissione vocale e generando  insoddisfazione per i risultati ottenuti, con una conseguente ostinazione nel tentare di migliorare le proprie prestazioni, in un circolo vizioso che rischia di diminuire - o addirittura togliere - la fiducia nelle proprie capacità vocali, quando non va addirittura a influire negativamente sul corretto utilizzo della muscolatura di sostegno e sull’assetto fisiologico della laringe.

 

         Per mia fortuna, Anna, la prima persona su cui mi è accaduto di lavorare con il metodo, non aveva mai preso prima alcuna lezione di canto e la sua particolare sensibilità e apertura mentale mi hanno permesso di utilizzare gli strumenti ideati da Serge con grande libertà di azione, senza dover fornire alcuna spiegazione di tipo “scientifico”. La rapidità dei risultati ha fatto il resto: ancora oggi, dopo più di due anni dall’inizio del nostro rapporto didattico e pur avendo raggiunto un ottimo grado di autonomia, Anna vive con grande piacere il nostro incontro settimanale: ha più volte definito il metodo una “terapia” e proprio ieri si stupiva di come a ogni lezione scopra qualcosa di nuovo della propria voce e di sé stessa.

 

         Diverso è, in genere, l’approccio con chi ha già studiato canto – o magari canta in un coro, sostanzialmente senza una particolare tecnica vocale, ma sottoposto a richieste, anche pressanti, di tipo estetico e interpretativo – o con persone che tendono a mentalizzare e razionalizzare qualunque cosa facciano.

 

         Nel caso dei cantanti professionisti o di coloro che studiano canto da molto tempo, il problema principale è indurli a considerarsi una “tabula rasa”, a cercare di ascoltarsi con orecchie nuove, e ad accettarsi nella rinnovata veste vocale. Le reazioni, se negative, sono di vario genere: rabbia, incredulità e insicurezza (che qualche volta possono anche indurre all’abbandono del metodo), apparente indifferenza, sono quelle che mi è capitato a volte di registrare. Più raramente ho notato la negazione di qualsiasi efficacia del metodo, che però generalmente nasconde il rifiuto di mettersi in discussione; alcune persone, inoltre, hanno assoluta necessità di lavorare in gruppo, perché i risultati che possono osservare sugli altri li rassicurano, insieme ai propri miglioramenti che gli altri fanno loro notare nella veste, a loro volta, di osservatori.

 

         Particolarmente interessante è stato il caso di una mia allieva di arte scenica, dotata di una bella voce di mezzosoprano,  la quale, pur essendo ormai in procinto di diplomarsi, non riusciva a sostenere bene il fiato e non sapeva “dove mettere le note” (sono parole sue) perché la sua insegnante di canto, per ragioni non ben chiare, si disinteressava alla sua formazione tecnica. Mi fu sufficiente insegnarle a praticare l’esercizio a terra di innalzamento del bacino e farle vocalizzare sulla lettera “é”  i brani che doveva eseguire, prima di cantarli con il relativo testo, per risolvere entrambi i problemi ottenendo, oltretutto, un netto miglioramento sul piano timbrico e dell’interpretazione scenica.

 

         I cantanti semi-professionisti e  amatoriali sono, generalmente, molto duttili e desiderosi di fare nuove esperienze, così come gli attori; gli eventuali problemi nascono dall’assunzione di un particolare modello che l’allievo desidera a tutti i costi emulare oppure dalla resistenza ad abbandonare schemi esistenziali preesistenti. Ho comunque sempre notato, nei soggetti appartenenti a queste categorie, molta curiosità, e, di solito, anche chi non  pratica il metodo con regolarità ne registra i benefici. “Mi hai aperto un mondo” mi ha detto recentemente una corista che aveva partecipato a due incontri di gruppo da me organizzati quattro mesi fa.

 

         Sebbene Serge sia molto scettico in proposito – e me lo abbia più volte manifestato! - ho intenzione di chiedere l’inserimento del metodo – per ora a titolo sperimentale – nelle attività didattiche del Conservatorio di Musica di Mantova, dove attualmente insegno, aprendolo sia ai cantanti che agli strumentisti e, per quanto riguarda questi ultimi, ho già ottenuto la collaborazione di una collega che insegna pianoforte. So che sarà più difficile convincere gli insegnanti di canto, ma sono persuasa che l’evidenza dei risultati che mano a mano verranno raggiunti abbatterà anche questo ostacolo, e che il metodo creato da Serge Wilfart potrà diffondersi in misura molto maggiore di quanto finora sia avvenuto.

 

 

Vittoria Lìcari  

 

 

 

 

 

 

 

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